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Promette al genitore di assumere i figli in cambio di denaro? Rischia una condanna per truffa

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FONTE: STUDIO CATALDI.IT – NOTA DI L.S. DEL 20.10.2010

La Seconda sezione della Corte di Cassazione Penale (sentenza n. 35352/2010), rigettando il ricorso di un funzionario delle poste – condannato per truffa aggravata per aver falsamente promesso a dei genitori l’assunzione delle figlie in cambio di denaro – stabilisce che “il traffico di posti di lavoro, anche al di fuori di ipotesi riconducibili al delitto di corruzione o di millantato credito, costituisce comunque causa illecita perché contraria non tanto al buon costume (concetto che evoca, più propriamente, le prestazioni contrarie alle regole della morale sessuale o della decenza), quanto all’ordine pubblico.” Nel caso preso in esame il funzionario impugnava la sentenza della Corte d’Appello “per essere stata ammessa la costituzione di parte civile delle persone offese nonostante che l’accordo fra costoro e il ricorrente fosse lato sensu corruttivo, moralmente riprovevole e comunque caratterizzato da causa contraria al buon costume e non da una mera illiceità legale (come invece affermato dalla Corte territoriale), il che ex art. 2035 c.c. escludeva l’azionabilità della pretesa restitutoria”. La Suprema Corte smentisce la tesi del ricorrente, precisando che “nel caso in esame la norma di riferimento non è l’art. 2035 c.c., bensì l’art. 2033 c.c., che sancisce la ripetibilità dell’indebito oggettivo, compreso quello derivante – come nella vicenda in discorso – da nullità del contratto per illiceità della relativa causa ai sensi del combinato disposto dell’art. 1343 c.c. e dell’art. 1418 c.c., comma 2 in quanto contraria all’ordine pubblico.” Sottolineano i giudici di legittimità che “l’art. 2035 c.c. è pur sempre norma eccezionale rispetto alla regola generale della ripetibilità dell’indebito, di guisa che, per quanto se ne voglia dare una lettura più estesa (essendo il concetto di buon costume, per sua stessa natura, necessariamente suscettibile di aggiornamento con il mutare della sensibilità sociale e dei modelli culturali e comportamentali), nondimeno essa non potrà mai sovrapporsi o, peggio, sostituirsi al concetto di ordine pubblico, salvo voler procedere all’arbitraria creazione di un’insanabile antinomia di sistema.”

(Data: 20/10/2010 10.59.00 – Autore: L.S.)

 

20 ottobre 2010 Posted by | Senza categoria | Lascia un commento

Nel computo dell’anzianità di servizio deve essere compreso anche il periodo di formazione e lavoro

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Cassazione civile, Sezioni Unite, 23.09.2010 n. 20074

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente di sezione

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Presidente di sezione

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere

Dott. AMOROSO Giovanni – rel. Consigliere

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 11277/2008 proposto da:

GTT – GRUPPO TORINESE TRASPORTI S.P.A. ((OMISSIS)), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI GRACCHI 81, presso lo studio dell’avvocato MALENA Massimo, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato PACCHIANA PARRAVICINI AGOSTINO, per delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

N.F. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIUSEPPE MAZZINI 113, presso lo studio dell’avvocato FAGIOLO MARCO, rappresentato e difeso dagli avvocati NARDELLI Cinzia, GRASSO VALERIA, per delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6036/2007 del TRIBUNALE di TORINO, depositata il 31/01/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/06/2010 dal Consigliere Dott. GIOVANNI AMOROSO;

uditi gli avvocati Massimo MALENA, Sergio VACIRCA per delega a margine dell’avvocato Cinzia Nardelli;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. N.F., dipendente della società Gruppo Torinese Trasporti (G.T.T.) S.p.A., con ricorso del 9 maggio 2007, conveniva in giudizio la società datrice di lavoro, esponendo di essere stato assunto il (OMISSIS) con contratto di formazione e lavoro della durata di ventiquattro mesi e di essere stato inquadrato con mansioni di conducente di linea, (OMISSIS) livello, e di aver avuto, alla scadenza di tale periodo ((OMISSIS)), senza soluzione di continuità, la trasformazione del contratto di formazione e lavoro in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Lamentava che, nonostante la previsione di cui al D.L. n. 726 del 1984, art. 3, comma 5, conv. dalla L. n. 863 del 1984, il periodo di formazione e lavoro non era stato considerato come utile al fine della maturazione degli scatti di anzianità, in attuazione di una norma del contratto collettivo interconfederale applicabile in materia. Tale previsione (art. 7, lett. c) dell’accordo nazionale 11 aprile 1995, riprodotto senza modifiche nel successivo art. 7, lett. c), dell’accordo nazionale 27 novembre 2000) prevedeva che “Nei casi in cui il rapporto di formazione e lavoro venga trasformato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il lavoratore dovrà essere utilizzato in attività corrispondenti alla formazione conseguita e il periodo di formazione lavoro verrà computato nell’anzianità di servizio, con esclusione degli aumenti periodici di anzianità”.

Chiedeva quindi che il Tribunale di Torino accertasse “la nullità ex artt. 1418 e 1419 c.c., delle parti delle clausole del detto accordo collettivo, ovvero di qualsiasi altra ulteriore clausola di contratto individuale e/o accordo collettivo e/o aziendale che prevedano i mancato computo del periodo del c.f.l. nell’anzianità di servizio al fine della maturazione degli scatti di anzianità, in contrasto con la L. n. 863 del 1984, art. 3 e, comunque disapplicare tali clausole e/ o accordi collettivi, individuali e integrativi, e per l’effetto condannare la G.T.T. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro- tempore, a computare il periodo di c.f.l. (…) nell’anzianità di servizio e condannare la stessa a corrispondere al ricorrente le differenze retributive tutte derivanti da tale computo e dalla conseguente maturazione degli aumenti periodici di anzianità previsti dal c.c.n.l. del settore ed istituti retributivi collegati, oltre interessi e rivalutazione come per legge”.

La società convenuta si costituiva e resisteva alla domanda sostenendo la legittimità della richiamata disciplina contrattuale collettiva (art. 7, lett. c), dell’accordo nazionale 11 aprile 1995, riprodotto senza modifiche nel successivo art. 7, lett. e), dell’accordo nazionale autoferrotranvieri 27 novembre 2000).

2. Il tribunale di Torino, pronunciando ex art. 420 bis c.p.c., in accoglimento della richiesta in tal senso formulata dalla parte convenuta, con sentenza n. 6036/07 del 3 dicembre 2007 – 31 gennaio 2008, decideva in via pregiudiziale la questione di validità della richiamata normativa collettiva accogliendo la domanda del ricorrente e dichiarava che il disposto dell’art. 7, lett. c), dell’accordo nazionale autoferrotranvieri 27 novembre 2000 doveva ritenersi affetto da invalidità, nella specie della nullità, nella parte in cui escludeva il diritto del lavoratore, il cui contratto di formazione e lavoro fosse stato trasformato in contratto a tempo indeterminato, di fruire degli aumenti periodici di anzianità con riferimento all’anzianità di servizio maturata anche con riguardo al periodo del contratto di formazione e lavoro. In particolare richiamava la costante (all’epoca) giurisprudenza di legittimità sulla questione, alla quale prestava adesione.

Disponeva con separata ordinanza la prosecuzione del giudizio.

3. La società G.T.T. ricorre direttamente in cassazione, ai sensi dell’art. 420 bis c.p.c., contro la sentenza non definitiva del Tribunale di Torino, censurandola in quanto aveva erroneamente, a suo dire – dichiarato la nullità dell’art. 7, lett. c), cit..

Il lavoratore intimato, N.F., ha depositato controricorso chiedendo il rigetto dell’impugnazione.

4. A seguito di ordinanza dell’11 novembre 2009 – 28 gennaio 2010, n. 1860, della Sezione Lavoro di questa Corte, che ha denunciato un contrasto di giurisprudenza sulla questione decisa dalla sentenza impugnata, il ricorso è stato assegnato alle Sezione Unite, ai sensi dell’art. 374 cod. proc. civ., comma 2.

Il contro ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Con il ricorso articolato in tre motivi la società ricorrente, denunciando sia la violazione di norme contrattuali collettive (art. 7, lett. c, c.c.n.l. autoferrotranvieri 27 novembre 2000; art. 7, lett. c, dell’accordo nazionale 11 aprile 1995; art. 3 dell’accordo nazionale 25 luglio 1997) sia la violazione di norme di legge (D.L. n. 726 del 1984, art. 3, comma 5, conv. nella L. n. 863 del 1984;

R.D. n. 148 del 1931, artt. 1 e 19, all. A), deduce che l’art. 3, comma 5, cit., mentre salvaguarda l’anzianità di servizio come l’atto ed ai fini dell’applicazione degli istituti legali inderogabili (quali il t.f.r. o l’applicazione delle norme relative ai licenziamenti collettivi), nulla prevede riguardo agli effetti retributivi connessi all’anzianità di servizio e, soprattutto, nulla prevede in ordine alla computabilità del periodo di formazione e lavoro ai fini del calcolo di istituti contrattuali (quali sono nel caso gli aumenti periodici di anzianità).

La ricorrente chiede quindi alla Corte se sia legittimo interpretare le norme collettive sopra richiamate nel senso di riconoscere soltanto all’anzianità di servizio maturata nel rapporto a tempo indeterminato quegli ulteriori incrementi periodici della retribuzione, non connessi al rinnovo del contratto collettivo, denominati “aumenti periodici di anzianità” e se l’estensione al contratto di formazione e lavoro delle norme che regolano il rapporto di lavoro, operata dall’art. 3, comma 5, cit., si riferisce esclusivamente alle norme di legge e di conseguenza anche la prescrizione di tale disposizione, che vuole computato il periodo di formazione e lavoro nell’anzianità di servizio, è prevista con esclusivo riferimento a quelle norme di legge che prendono in considerazione l’anzianità di servizio sicchè non vale per gli aumenti periodici (o scatti) di anzianità, i quali sono un istituto di origine necessariamente ed esclusivamente contrattuale.

2. Il ricorso – i cui tre motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto oggettivamente connessi…..è infondato.

3. La questione sottoposta alle sezioni unite di questa corte ed in ordine alla quale è insorto il contrasto di giurisprudenza denunciato dalla menzionata ordinanza dell’11 novembre 2009 – 28 gennaio 2010, n. 1860, della Sezione Lavoro di questa Corte, è se sia valida – o meno – in riferimento alla prescrizione di cui al D.L. n. 726 del 1984, art. 3, commi 5 e 12, come convertito nella L. n. 863 del 1984, la norma della contrattazione collettiva (nella specie, art. 7, lett. c, dell’accordo nazionale 27 novembre 2000 per gli autoferrotranvieri), nella parte in cui esclude il diritto del lavoratore, il cui contratto di formazione e lavoro sia stato trasformato in contratto a tempo indeterminato, di beneficiare di aumenti periodici di anzianità computando anche l’anzianità di servizio maturata nel periodo del contratto di formazione e lavoro.

Si tratta quindi di verificare la computabilità del periodo di formazione e lavoro nell'”anzianità di servizio” dei lavoratori assunti inizialmente con contratto di formazione e lavoro ed il cui rapporto sia stato poi trasformato in ordinario lavoro a tempo indeterminato (comma 5 dell’art. 3 cit.) ovvero che siano stati assunti a tempo indeterminato, con chiamata nominativa, entro dodici mesi dalla cessazione del rapporto di formazione e lavoro (comma 12 dell’art. 3 cit).

Ci si è chiesto in sostanza se la particolare garanzia posta, per il lavoratore, dall’art. 3, commi 5 e 12, cit., riguardi solo gli istituti di fonte legale (quale all’epoca l’indennità di anzianità ed attualmente il trattamento di fine rapporto), che, in ragione di tale prescrizione, non sono suscettibili di deroghe in peius ad opera della disciplina collettiva ovvero anche istituti di fonte contrattuale la cui regolamentazione sia interamente rimessa alla contrattazione collettiva.

Il problema si è posto proprio per gli aumenti periodici della retribuzione (c.d. scatti di anzianità), istituto non previsto dalla legge e quindi interamente rimesso alla regolamentazione collettiva.

Ed infatti, a fronte della menzionata normativa legale, c’è una normativa contrattuale, che nel regolamentare appunto gli scatti di anzianità del lavoratore, ha escluso dal computo dell’anzianità utile il periodo del contratto di formazione lavoro: tale è l’art. 7, lett. c), dell’accordo nazionale 27 novembre 2000 per gli autoferrotranvieri (analogamente dispone l’art. 17 c.c.n.l. per i ferrovieri del 2003), che esclude, appunto, il diritto del lavoratore, il cui contratto di formazione e lavoro sia stato trasformato in contratto a tempo indeterminato, di beneficiare di aumenti periodici di anzianità con riferimento all’anzianità di servizio maturata nel periodo del contratto di formazione e lavoro.

4. La norma di riferimento è costituita – come già rilevato – dal cit. D.L. n. 726 del 1984, art. 3, che detta una duplice prescrizione quanto al computo del periodo di formazione nell’anzianità di servizio: a) al comma 5 prevede: “Il periodo di formazione e lavoro è computato nell’anzianità di servizio in caso di trasformazione del rapporto di formazione e lavoro in rapporto a tempo indeterminato, effettuata durante ovvero al termine dell’esecuzione del contratto di formazione e lavoro”: b) al comma 12 stabilisce:

“qualora il lavoratore sia assunto, entro i limiti di tempo fissati da) presente comma dodici mesi, dal medesimo datore di lavoro, il periodo di formazione è computato nella anzianità di servizio”.

Quindi nell’un caso (trasformazione del rapporto per effetto della novazione del contratto di lavoro) e nell’altro (stipulazione di un nuovo contratto di lavoro con conseguente instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro a “breve” distanza di tempo dalla cessazione del rapporto di formazione e lavoro) si ha che “il periodo di formazione è computato nell’anzianità di servizio”. L’assimilazione delle due ipotesi non diversamente, ad es., dal periodo di prova cui segua, senza alcuna novazione del rapporto, la definitività dell’iniziale (ed unica) assunzione con la conseguenza che il servizio prestato si computa interamente nell’anzianità del prestatore di lavoro (art. 2096 c.c.) – suggerisce l’idea che si tratti di una fictio juris operante a tutto campo.

A fronte di tale norma di legge vi è la previsione contrattuale collettiva posta dall’art. 7, lett. c) dell’accordo nazionale 11 aprile 1995, riprodotto senza modifiche nel successivo art. 7, lett. c) dell’accordo nazionale 27 novembre 2000, che stabilisce: “Nei casi in cui il rapporto di formazione e lavoro venga trasformato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il lavoratore dovrà essere utilizzato in attività corrispondenti alla l’orinazione conseguita e il periodo di formazione lavoro verrà computato nell’anzianità di servizio, con esclusione degli aumenti periodici di anzianità…”.

Quindi, entrambe le disposizioni si occupano delle conseguenze della trasformazione del contratto di formazione e lavoro in contratto di lavoro a tempo indeterminato sull’anzianità di servizio: la previsione legislativa sancisce che il periodo di formazione e lavoro “è computato nell’anzianità di servizio”; la previsione collettiva prevede invece: “verrà computato nell’anzianità di servizio, con esclusione degli aumenti periodici di anzianità”.

Il problema che si è posto in giurisprudenza è quello di stabilire se alla contrattazione collettiva fosse, o meno, consentito di operare tale modifica (peggiorativa) del disposto legislativo.

5. Su tale questione di diritto si registra una giurisprudenza, più volte riaffermata negli anni, che ritiene che la disciplina contrattuale degli scatti di anzianità non possa escludere che nel l’anzianità di servizio sia computabile il pregresso periodo di formazione e lavoro nelle fattispecie di cui ai commi 5 e 12 del l’art. 3 cit..

Inizialmente la Corte con due pronunce conformi (Cass., sez. lav., 6 ottobre 2000, n. 13309; Cass., sez. lav., 18 agosto 2000, n. 10961) ha affermato che la tesi secondo cui il richiamo, contenuto nel D.L. n. 726 del 1984, art. 3, commi 5 e 12, all’anzianità di servizio dovrebbe valere solamente per gli effetti ricollegati al decorso del tempo direttamente dalla legge, non anche dalla contrattazione collettiva, “non trova fondamento nel testo normativo ove si richiama tout court l’anzianità di servizio, senza alcun riferimento alle fonti che ne regolano gli effetti. La tassativa disposizione di legge non offre spazio a distinzioni estranee al testo pur se gli scatti di anzianità ed i passaggi automatici alle classi stipendiali in funzione dell’anzianità trovano la loro fonte della contrattazione collettiva”.

In tal modo la Corte ha dato una risposta affermativa ad un duplice quesito ritenendo da una parte che la rilevanza del periodo di formazione in termini di anzianità di servizio riguardasse anche gli istituti disciplinati dalla contrattazione collettiva e d’altra parte che tale rilevanza era sempre e comunque predicabile in termini di inderogabilità da parte della contrattazione collettiva. Insomma affermare che la rilevanza del periodo di formazione nell’anzianità di servizio anche per gli istituti disciplinati dalla contrattazione collettiva non risolveva la questione di diritto allora posta;

occorreva affermare anche l’inderogabilità di tale rilevanza perchè nella fattispecie allora all’esame della Corte (al pari di quella oggetto della sentenza ora impugnata) la contrattazione collettiva aveva al contrario espressamente escluso la computabilità del periodo di formazione al fine del calcolo degli scatti di anzianità.

Questo orientamento è stato seguito, in termini conformi da varie pronunce di questa Corte: Cass., sez., lav., 23 settembre 2000, n. 12639; id., 3 agosto 2001, n. 10773; id., 13 novembre 2001, n. 14112.

Anche Cass., sez. lav., 14 marzo 2003, n. 3781, ha ribadito che la disposizione del D.L. n. 726 del 1984, art. 3, comma 5, convertito con modificazioni in L. n. 863 del 1984, secondo cui il periodo di formazione e lavoro è computato nell’anzianità di servizio in caso di trasformazione del relativo rapporto di lavoro in lavoro a tempo indeterminato, effettuata durante ovvero al termine dell’esecuzione del contratto di formazione e lavoro, e la disposizione del comma 12, che estende le agevolazioni offerte ai datori di lavoro al caso di assunzioni nei dodici mesi successivi al periodo di formazione, comportano la computabilità di detto periodo anche quando l’anzianità di servizio è presa in considerazione da discipline meramente contrattuali, come quella sugli scatti di anzianità e i passaggi automatici di classe stipendiale, dato che la distinzione tra istituti di origine legale e trattamenti di fonte convenzionale non trova fondamento nel tassativo tenore del testo normativo, la cui portata non può ritenersi derogabile neanche mediante specifiche previsioni della contrattazione collettiva.

In senso ulteriormente conforme v. anche Cass., sez., lav., 14 marzo 2003, n. 3781; id., 3 marzo 2004, n. 4342; id., 10 aprile 2006, n. 8310; id., 16 maggio 2006, n. 11437. 6. Un’affermazione ancora più puntuale di inderogabilità della prescrizione dell’art. 3, commi 5 e 12, cit., si ritrova poi in due successive pronunce (Cass., sez. lav., 20 novembre 2007, n. 24033;

id., 15 maggio 2008, n. 12321).

In entrambi i casi venivano all’esame della Corte due istituti contrattuali (nella prima, le agevolazioni tariffarie in favore dei lavoratori con anzianità di servizio decorrente prima di una certa data; nell’altra il passaggio ad un livello superiore in ragione della mera anzianità di servizio) che non prevedevano in realtà una deroga per i lavoratori che – prima dell’assunzione o della trasformazione del rapporto – avessero un pregresso periodo di formazione da far valere ex art. 3 cit.. Non di meno la Corte non si limita ad affermare che la rilevanza del pregresso periodo di formazione ai fini dell’anzianità di servizio vale anche per gli istituti disciplinati dalla contrattazione collettiva, ma, richiamando proprio le cit. pronunce del 2000 (Cass., sez. lav., 6 ottobre 2000. n. 13309; id., 18 agosto 2000, n. 10961), afferma espressamente l’inderogabilità di tale prescritta rilevanza ad opera della contrattazione collettiva.

La corte quindi – nel ribadire che la disposizione contenuta nel D.L. n. 726 del 1984, art. 3, secondo la quale in caso di trasformazione del rapporto di formazione e lavoro in rapporto a tempo indeterminato il periodo di formazione e lavoro deve essere computato nell’anzianità di servizio, opera anche quando l’anzianità è presa in considerazione da discipline contrattuali ai fini dell’attribuzione di emolumenti che hanno fondamento nella sola contrattazione collettiva, atteso che l'”inzianità di servizio” considerata dalla disposizione in esame definisce la dimensione temporale di questo unico rapporto, privo di soluzione di continuità, nel quale va incluso il periodo di formazione e lavoro – precisa chiaramente che la regola della computabilità nell’anzianità di servizio del periodo di formazione e lavoro opera anche quando l’anzianità è presa in considerazione da discipline meramente contrattuali (come quelle sugli scatti di anzianità e i passaggi automatici di classe stipendiale) in quanto la portata della norma imperativa di legge “non può essere derogata dalla contrattazione collettiva”.

Quindi – sottolinea la corte – il legislatore ha stabilito in via generale che il periodo di formazione e lavoro in caso di trasformazione del rapporto deve essere computato nell’anzianità di servizio con una tassativa disposizione di legge (l’art. 3 cit.), non facendo alcun riferimento alle fonti che regolano gli effetti dell’anzianità; disposizione che non offre spazio a distinzioni estranee al testo sicchè tale garanzia si applica anche agli scatti di anzianità ed ai passaggi automatici di classe stipendiale in funzione dell’anzianità che trovano la loro fonte nella contrattazione collettiva.

La norma in questione (l’art. 3 cit.), per essere posta a garanzia di lavoratori particolarmente deboli sul piano contrattuale, tutela interessi di natura generale e -osserva la Corte – “ha certamente natura imperativa ed inderogabile”, come si evince anche dalla sua formulazione, nella quale manca ogni richiamo a diverse disposizioni della contrattazione collettiva ed individuale.

Altre pronunce di questa corte si sono allineate in senso conforme:

Cass., sez., lav., 6 giugno 2007, n. 13265; id., 12 giugno 2007, nn. 13716, 13717 e 13718; id., 14 giugno 2007, n. 13872; id., 27 giugno 2007, n. 14812; id., 17 luglio 2007, n. 15893; id., 1 5 maggio 2008, n. 12321. 7. Questo indirizzo costante e ripetuto negli anni ha comportato la formazione di una situazione di diritto vivente su tale questione, la quale intanto, per il lavoro privato, aveva in parte perso attualità visto che il D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 59 bis, aggiunto dal D.Lgs. 6 ottobre 2004, n. 251, art. 14, recante la disciplina transitoria dei contratti di formazione e lavoro, aveva previsto che nel settore privato la disciplina vigente prima della data di entrata in vigore del decreto legislativo medesimo si applicava ai contratti di formazione e lavoro stipulati dal 24 ottobre 2003 e fino al 31 ottobre 2004, sulla base di progetti autorizzati entro il 23 ottobre 2003. E parallelamente il successivo art. 86, comma 9, ha previsto che la disciplina dei contratti di formazione e lavoro avrebbe continuato a trovare applicazione esclusivamente nei confronti della pubblica amministrazione, come poi confermato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 2, nella formulazione del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 49, conv. con L. 6 agosto 2008, n. 133, poi modificato dal D.L. 1 luglio 2009, n. 78, art. 17, comma 26, lett. a), conv. con L. 3 agosto 2009, n. 102. 8. Nel corso del 2009 però intervengono alcune pronunce che operano una revisione critica di tale orientamento fino a quel momento seguito dalla corte e pervengono ad una soluzione di segno contrario.

La Corte, chiamata nuovamente a pronunciarsi sulla questione in esame, opera il revirement con alcune pronunce deliberate tutte alla stessa udienza dell’11 marzo 2009 (Cass.. sez. lav., 14 maggio 2009, n. 11206; id., 21 maggio 2009, n. 11839; id., 19 maggio 2009, n, 11605; id., 22 maggio 2009, n. 11933); successivamente conf. id., 23 febbraio 2010, n. 4374.

La Corte in particolare ha ritenuto che l’autonomia contrattuale collettiva non solo può legittimamente escludere per questa categoria di lavoratori particolari elementi retributivi, ma anche, al fine di incentivare la stabilizzazione del rapporto, prevedere che gli sia corrisposta una retribuzione inferiore a quella degli altri dipendenti per un certo periodo di tempo successivo alla trasformazione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Ed allora, se si riconosce essere legittima la clausola contrattuale collettiva che preveda per il lavoratore che abbia un pregresso periodo di formazione un livello retributivo più basso anche dopo la trasformazione in ordinario rapporto di lavoro, non può continuare a predicarsi – osserva la corte – l’illegittimità della clausola contrattuale collettiva che, al fine degli scatti di anzianità, escluda la rilevanza del periodo di l’orinazione.

E quindi la corte conclude affermando, come principio di diritto, che non si pone in contrasto con la norma imperativa di cui al D.L. n. 726 del 1984, art. 3, comma 5, conv. in L. n. 863 del 1984 – secondo cui il periodo di formazione e lavoro è computato nell’anzianità di servizio in caso di trasformazione in rapporto a tempo indeterminato – il contratto collettivo (quale appunto il c.c.n.l. per i dipendenti delle ferrovie dello Stato 7 luglio 1995, al punto 5.2), che, nel disciplinare gli aumenti retributivi periodici, esclude l’utile computo del periodo di formazione lavoro, siccome la disposizione non nega l’anzianità di servizio stabilita dalla legge, ma si limita a prevedere una decurtazione retributiva per i dipendenti che hanno dato un apporto ridotto alla produttività aziendale a causa della specificità del rapporto di formazione e lavoro.

9. Orbene, pur non potendo negarsi la legittimità della revisione di un orientamento giurisprudenziale consolidato in una situazione di diritto vivente, le esigenze di affidamento nella certezza del diritto e nella stabilità dei rapporti giuridici – che le recenti riforme del giudizio civile di cassazione hanno per più aspetti posto in maggiore evidenza – richiedono particolare cautela.

La questione posta all’esame della Corte involge in realtà un duplice quesito: a) se la rilevanza del periodo di formazione in termini di anzianità di servizio riguardi anche istituti disciplinati dalla contrattazione collettiva; b) se tale rilevanza è sempre e comunque predicabile in termini di inderogabilità da parte della contrattazione collettiva.

La risposta in termini affermativi al primo quesito (sub a), più volte ribadita dalla giurisprudenza di questa corte, sopra citata fino al revirement del 2009, discende dalla considerazione che i dato testuale dell’art. 3, commi 5 e 12, secondo cui il periodo di formazione e lavoro e computato nell’anzianità di servizio, è inequivocabile nel non limitare questa equiparazione agli istituti di fonte legale; ciò che è, a ben vedere, compatibile con entrambi gli orientamenti giurisprudenziali sopra citati, benchè per altro verso contrastanti.

Se si considerano i casi di specie esaminati da Cass., sez. lav., 20 novembre 2007 n. 24033 e da Cass., sez. lav., 15 maggio 2008, n. 12321, si può notare che la contrattazione collettiva faceva dipendere alcuni benefici economici (agevolazioni tariffarie, passaggio di livello) dall’anzianità di servizio senza nulla specificare quanto all’eventuale pregresso periodo di formazione del lavoratore. L’affermazione, secondo cui in questi casi, pur trattandosi di istituti contrattuali la cui disciplina è interamente rimessa alla contrattazione collettiva, opera comunque la prescrizione dell’art. 3, commi 5 e 12, cit., non differenzia in realtà gli indirizzi giurisprudenziali in contrasto tra loro.

10. E’ invece la risposta al quesito sub b) in cui si puntualizza più specificamente il denunciato contrasto di giurisprudenza: si tratta di verificare i limiti di derogabilità, da parte della contrattazione collettiva, di una previsione di legge che persegue una finalità di tutela del lavoro dipendente.

Nella fattispecie la norma di tutela (art. 3, commi 5 e 12, cit.) si riferisce specificamente al (l'”anzianità di servizio” che in sè considerata costituisce la dimensione diacronica di un fatto, qual è l’espletamento del servizio da parte del lavoratore; quindi la norma riguarda una situazione, appunto, di fatto (periodo di formazione e lavoro seguito da periodo di lavoro ordinario) rilevante ai fini di vari istituti di fonte legale o contrattuale.

La regola dettata dal legislatore al cit. D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, art. 3, commi 5 e 12, convenuto, con modificazioni, nella L. 19 dicembre 1984, n. 863, è quella di un’equiparazione (periodo di formazione e lavoro – periodo di lavoro ordinario) di carattere generale, che non riferendosi specificamente ad alcun istituto giuridico nè di fonte legale nè di fonte contrattuale, opera a tutto campo perseguendo un’esigenza di riequilibrio e di contemperamento.

Mette conto rilevare che il contratto di formazione e lavoro ha una sua intrinseca precarietà per essere a termine; cfr. Cass. civ., sez. lav., 22 giugno 2005, n. 13362, che ha sottolineato che il contratto di formazione e lavoro e, per definizione legale, un contratto a termine e nessuna previsione legislativa assicura automaticamente la trasformazione del rapporto in difetto dei requisiti e degli elementi costitutivi per la sua novazione oggettiva, tassativamente indicati dall’art. 3 cit..

Ma nella stesso tempo la formazione del lavoratore è un valore non solo per quest’ultimo, la cui professionalità da essa trae occasione di miglioramento, ma anche per il datore di lavoro-imprenditore che investe in un fattore importante della produzione: le conoscenze e le abilità professionali dei lavoratori, il saper fare che è la condizione indispensabile per poter fare.

Ed allora il legislatore ha inteso tutelare la formazione conseguita anche con questa prescrizione di riequilibrio, in qualche misura, della mancanza di stabilità del rapporto di formazione e lavoro (in quanto a termine), con l’equiparazione della formazione e lavoro a lavoro tout court quando – e se il rapporto di formazione e lavoro si trasforma in (o è seguito, entro certi limiti di tempo, da) un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. E questa equiparazione ha posto con prescrizione di carattere generale, a tutto campo, senza limitazione alcuna.

11. Non è senza rilievo che similari esigenze di tutela sono sottese ad altre fattispecie in cui il legislatore pari menti ha posto l’equiparazione con l’ordinaria anzianità di servizio.

Plurime sono infatti le norme che fanno (o hanno fatto) salva la computabilità di certi periodi nell’anzianità di servizio: l’art. 2096 c.c., comma 4, che disciplina l’assunzione in prova, prevede – come già rilevato – che, compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro; l’art. 2110 c.c., che detta la disciplina di tutela del lavoratore in caso di infortunio, malattia, gravidanza, puerperio, prevede che il periodo di assenza dal lavoro per una delle cause suddette deve essere computato nell’anzianità di servizio; la L. 19 gennaio 1955, n. 25, art. 19 (recante la disciplina dell’apprendistato), che prevede che, qualora al termine del periodo di apprendistato non sia data disdetta, l’apprendista è mantenuto in servizio con la qualifica conseguita mediante le prove di idoneità ed il periodo di apprendistato è considerato utile ai fini dell’anzianità di servizio del lavoratore; la L. 30 dicembre 1971, n. 1204, artt. 6 e 7 (sulla tutela delle lavorataci madri) che prevedevano rispettivamente che i periodi di astensione obbligatoria dal lavoro a i sensi dei precedenti artt. 4 e 5 dovevano essere computati nell’anzianità di servizio a tutti gli effetti, compresi quelli relativi alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia e alle ferie e che i periodi di assenza facoltativa erano computati nell’anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia;

il D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 22, comma 3 (recante il testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità), che prevede che i periodi di congedo di maternità devono essere computati nell’anzianità di servizio a tutti gli effetti, compresi quelli relativi alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia e alle ferie; il successivo art. 34, comma 5, che prevede che i periodi di congedo parentale sono computati nell’anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia; nonchè l’art. 48, comma 1, che prevede che i periodi di congedo per la malattia del figlio sono computati nell’anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia; la L. 24 dicembre 1986, n. 958, art. 20 (sul servizio militare di leva e sulla ferma di leva prolungata) che ha previsto che il periodo di servizio militare è valido a tutti gli effetti per l’inquadramento economico e per la determinazione dell’anzianità lavorativa ai fini del trattamento previdenziale del settore pubblico.

Questo ventaglio di ipotesi mostra anche che quando il legislatore ha inteso escludere la rilevanza dell’equiparazione agli effetti di qualche istituto, anche contrattuale, lo ha espressamente previsto come eccezione alla regola.

Quando invece l’equiparazione è formulata in termini generali, senza eccezioni, da essa può ricavarsi anche una prescrizione di inderogabilità della equiparazione stessa.

12. Ed allora è vero che gli scatti di anzianità costituiscono un istituto giuridico di fonte esclusivamente contrattuale collettiva;

ma l’equiparazione posta dalla legge (periodo di formazione e lavoro = periodo di lavoro ordinario), in quanto formulata in termini generali ed assoluti, non è derogabile dalla contrattazione collettiva.

Il contratto collettivo potrebbe non prevedere affatto l’istituto degli scatti di anzianità, come anche lo può prevedere articolando nel modo più vario la progressione di tali aumenti retributivi automatici, ma non può escludere dal computo dell’anzianità di servizio, a tal fine, il pregresso periodo di formazione e lavoro.

L’equiparazione tra periodo di formazione ed anzianità di servizio esprime un generale canone che si sovrappone, per il suo carattere inderogabile, anche alla contrattazione collettiva, la quale può sì disciplinare nel modo più vario istituti contrattuali rimessi interamente alla sua regolamentazione, come gli scatti di anzianità, ma non potrebbe introdurre un trattamento in senso lato discriminatorio in danno dei lavoratori che abbiano avuto un pregresso periodo di formazione. Con riguardo agli istituti contrattuali l’anzianità di servizio può valere tanto o poco – ciò rientra nell’ambito dell’autonomia collettiva – ma non è possibile, per la contrattazione collettiva, a fronte della prescrizione legale suddetta, “sterilizzare” il periodo di formazione e lavoro prevedendo che a qualche fine, come quello degli scatti di anzianità, non valga: il legislatore considera che la formazione congiunta al lavoro sia ex lege equiparabile a lavoro prestato.

Sotto questo profilo l’equiparazione suddetta opera anche come una clausola di non discriminazione: il lavoratore, una volta inglobata nella sua anzianità di servizio il pregresso periodo di formazione e lavoro, non può più essere discriminato in ragione del fatto che una porzione della sua anzianità di servizio è tale solo in forza dell’equiparazione legale suddetta.

Analogamente non sarebbe possibile una disciplina differenziata in ragione della pregressa formazione perchè ciò integrerebbe la fattispecie di una discriminazione vietata; v., seppur sotto il profilo della discriminazione per l’età, la recente pronuncia della Corte di giustizia del 18 giugno 2009, n. c-88/08, che ha ritenuto contrastante con gli artt. 1, 2 e 6 della direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, sulla parità di trattamento in materia di lavoro, una disciplina nazionale (nella specie, austriaca) che, proprio al fine degli scatti di anzianità, escludeva la formazione acquisita dal lavoratore prima dei diciotto anni di età. 13. Nè la conclusione alla quale si perviene è contraddetta da quella giurisprudenza (Cass., sez. lav., 14 agosto 2004, n. 15878) che ritiene legittimo un livello retributivo più basso, a parità di mansioni, per i lavoratori che siano – o addirittura che siano stati – in formazione e lavoro.

La prospettiva è tutt’affatto diversa; è quella degli interventi, diretti o indiretti, di contrasto della disoccupazione giovanile (v. ad es. D.L. 16 maggio 1994, n. 299, art. 16, conv. con L. 19 luglio 1994, n. 451, che aveva previsto che lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro potessero essere inquadrati ad un livello inferiore a quello di destinazione), i quali, nella misura in cui, eccezionalmente e temporaneamente, comprimono diritti specificamente previsti, non possono essere utilizzati in via parametrica per limitare anche tutele a carattere generale poste da altre disposizioni di legge. Non è senza rilievo considerare che in quelle pronunce in cui questa corte (Cass., sez. lav., 10 aprile 2006, n. 8310; id., 12 aprile 2006, n. 8537) ha ritenuto legittimo il salario di ingresso ed. prolungato, si è parimenti ritenuto illegittima la clausola di sterilizzazione del periodo lavorativo ai fini degli scatti di anzianità. 14. In conclusione il contrasto di giurisprudenza va risolto ribadendo l’orientamento giurisprudenziale più volte affermato da questa corte prima delle citate pronunce del 2009.

Deve quindi riaffermarsi – come principio di diritto – che la disposizione contenuta nel D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, art. 3, commi 5 e 12, convertito, con modificazioni, nella L. 19 dicembre 1984 n. 863, secondo cui in caso di trasformazione del rapporto di formazione e lavoro in rapporto a tempo indeterminato ovvero nel caso di assunzione a tempo indeterminato, con chiamata nominativa, entro dodici mesi dalla cessazione del rapporto di formazione e lavoro, il periodo di formazione e lavoro deve essere computato nell’anzianità di servizio, opera anche quando l’anzianità è presa in considerazione da discipline contrattuali ai fini dell’attribuzione di emolumenti che hanno fondamento nella sola contrattazione collettiva, come nel caso degli aumenti periodici di anzianità previsti di cui art. 7, lett. c), dell’accordo nazionale 11 aprile 1995, riprodotto senza modifiche nel successivo art. 7, lett. c), dell’accordo nazionale 27 novembre 2000 per i dipendenti di aziende di trasporto in concessione.

15. Sussistono giustificati motivi (in considerazione dell’evoluzione giurisprudenziale sulle questioni dibattute che hanno visto insorgere il contrasto di giurisprudenza ora così composto) per compensare tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.

15 ottobre 2010 Posted by | Senza categoria | Lascia un commento

Addebito della separazione al coniuge che rende pubblica la relazione extraconiugale

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FONTE: CASSAZIONE.NET – NOTA DI ILARIA PIAZZA

Separazione addebitata automaticamente al coniuge che tradisce l’ex e lo va a raccontare agli amici comuni. Aver reso pubblica la relazione extraconiugale non vuol dire necessariamente che la crisi matrimoniale era pregressa, anzi, può aver contribuito a consolidarla.

Lo ha stabilito la Suprema Corte che, con la sentenza 21245 del 14 ottobre 2010, ha respinto il ricorso di un marito contro l’ex moglie per l’annullamento della sentenza con cui il Tribunale di Roma aveva reso definitiva la separazione tra i due, obbligando l’uomo a versare duemila euro per ciascuna delle due figlie, maggiorenni ma ancora a carico della madre, più mille euro in favore dell’ex compagna. L’uomo, diplomatico in servizio all’estero, impugnava la decisione del tribunale, e contestava da un lato l’addebito della separazione, dall’altro l’importo eccessivo dell’assegno di mantenimento. L’ex coniuge sosteneva che la separazione non dipendeva da lui, il fallimento del suo matrimonio era già in atto, tanto che sua relazione era nota a tutti i loro amici comuni. I giudici della prima sezione civile hanno confermato che la violazione degli obblighi coniugali aveva “determinato l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza”. Non solo. Il giudice di legittimità ha ricordato che “la violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale, particolarmente grave in quanto di regola rende intollerabile la prosecuzione della convivenza, giustifica ex se l’addebito della separazione al coniuge responsabile, a meno che non risulti che comunque non abbia avuto incidenza causale nel determinare la crisi coniugale, siccome già preesisteva un menage solo formale.” Per quanto riguarda invece l’assegno, la Cassazione, richiamando un principio sancito di recente, ha affermato che l’indennità di servizio che prendono i diplomatici all’estero contribuisce a determinare l’importo dell’assegno di mantenimento, anche se si tratta di un’indennità che non ha natura retributiva “trattandosi comunque di un’entrata patrimoniale idonea a determinare migliori condizioni di vita sul piano economico”.

Ilaria Piazza

 

15 ottobre 2010 Posted by | Senza categoria | Lascia un commento

Operazioni sospette: no alle segnalazioni automatiche

Operazioni sospette: no alle segnalazioni automatiche

13 ottobre 2010 Posted by | Senza categoria | Lascia un commento

Il titolare dell’auto in leasing può chiedere il risarcimento danni in caso di incidente

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FONTE: CASSAZIONE.NET – NOTA DI ROBERTA MACCHIA

In caso di incidente stradale, il titolare di un’auto in leasing è legittimato a chiedere il risarcimento del danno subito.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 21011 del 12 ottobre 2010. A causa di una norma contenuta nel contratto di locazione finanziaria, che escludeva il diritto dell’utilizzatore a richiedere l’indennizzo in caso di incidente stradale, il Tribunale di Milano aveva dichiarato il difetto di
legittimazione per un uomo che, avendo subito danno dopo un sinistro, aveva presentato la relativa richiesta di risarcimento. La causa si era così spostata in Cassazione. Il giudice di legittimità, accogliendo le motivazioni del possessore dell’autovettura, che aveva dimostrato di aver subito un danno patrimoniale a seguito dell’incidente, ha affermato che, “in tema di legittimazione alla domanda di danni , deve ritenersi che il diritto al risarcimento può spettare anche a colui il quale, per circostanze contingenti, si trovi ad esercitare un potere soltanto materiale sulla cosa e, dal danneggiamento di questa, possa risentire un pregiudizio al suo patrimonio, indipendentemente dal diritto, reale o personale, che egli abbia all’esercizio di quel potere. È dunque tutelabile in sede risarcitoria anche la posizione di chi eserciti nei confronti dell’autovettura danneggiata in un stradale una situazione di possesso giuridicamente qualificabile come tale ai sensi dell’articolo 1140 c.c.”.

Roberta Macchia

12 ottobre 2010 Posted by | Senza categoria | Lascia un commento

Non ha diritto alla reversibilità l’ex coniuge che non percepiva l’assegno di divorzio

FONTE: CASSAZIONE.NET

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FONTE: CASSAZIONE.NET – NOTA DI ROBERTA MACCHIA

Non ha diritto alla pensione di reversibilità l’ex coniuge che non percepisce assegno divorzile, anche se è in possesso dei requisiti di legge per il riconoscimento del mantenimento.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 20999 del 12 ottobre 2010. Contro la decisione della Corte di Appello di Catanzaro che aveva respinto la richiesta per la pensione di reversibilità a seguito della morte dell’ex coniuge, una donna aveva presentato ricorso in Cassazione. Confermando le motivazioni del giudice di merito, che aveva basato la propria sentenza sulla mancata corresponsione alla donna di un assegno divorzile, la Suprema Corte ha affermato che, “ai fini del diritto del coniuge divorziato alla pensione di riversibilità, disciplinato dalla legge 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9, commi 2 e 3, cosí come sostituito dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 13, il requisito della titolarità dell’assegno presuppone il riconoscimento giudiziale del cosiddetto assegno divorzile, a seguito della proposizione della relativa domanda, senza che possa attribuirsi rilevanza ad un’eventuale convenzione privata o ad erogazioni effettuate in linea di fatto”.

Roberta Macchia

 

 

12 ottobre 2010 Posted by | Senza categoria | Lascia un commento

Praticanti avvocati: la tassa per l’iscrizione al registro dei praticanti è dovuta solo quando si può in concreto esercitare

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FONTE: FISCO OGGI

Risoluzione del 11/10/2010 n. 103 – Agenzia delle Entrate – Direzione Centrale Normativa

Consulenza giuridica – Tassa sulle concessioni Governative per l’iscrizione al registro speciale dei praticanti
Testo:

Con la richiesta di consulenza giuridica specificata in oggetto, concernente l’interpretazione dell’articolo 22 della tariffa allegata al DPR 26 ottobre 1972, n. 641, è stato esposto il seguente:

Quesito

Con nota prot. n. … del … 2009, la Direzione Regionale ha trasmesso un quesito del Consiglio dell’ordine degli avvocati di … con il quale sono stati chiesti chiarimenti sulle modalità di applicazione della tassa sulle concessioni governative relativamente all’iscrizione nel registro dei praticanti avvocati e l’inserimento nell’elenco dei praticanti abilitati.

In particolare, l’istante chiede di conoscere se la tassa sulle concessioni governative di cui all’articolo 22, punto 8, della tariffa allegata al DPR del 26 ottobre 1972, n. 641 sia dovuta dal laureato in giurisprudenza per l’iscrizione al Registro speciale dei Praticanti e dal praticante avvocato per l’ammissione al patrocinio di cui all’articolo 8, comma 2, del RDL n. 1578/1933 e all’articolo 7 della legge n. 479/1999.

Soluzione interpretativa prospettata dall’istante

In merito al quesito posto, l’ordine degli Avvocati di … “…ritiene non dovuta la tassa né per l’iscrizione dei laureati in giurisprudenza al Registro Speciale dei Praticanti né decorso un anno di pratica per l’ammissione”.

Parere della Direzione

Preliminarmente si osserva che il R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578 convertito con modificazioni dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36 – “ Legge professionale Forense”, all’articolo 1 stabilisce che “Nessuno può assumere il titolo, né esercitare le funzioni di avvocato o di procuratore se non è iscritto nell’albo professionale”.

“Per ogni tribunale civile e penale è costituito un albo di avvocati” (articolo 16).

L’articolo 8 del RDL citato prevede, inoltre, che “I laureati in giurisprudenza, che svolgono la pratica (…), sono iscritti, a domanda e previa certificazione del procuratore di cui frequentano lo studio, in un registro speciale tenuto dal consiglio dell’ordine degli avvocati e dei procuratori presso il tribunale nel cui circondario hanno la residenza, e sono sottoposti al potere disciplinare del consiglio stesso.

I praticanti procuratori, dopo un anno dalla iscrizione nel registro di cui al primo comma, sono ammessi, per un periodo non superiore a sei anni, ad esercitare il patrocinio davanti ai tribunali del distretto nel quale è compreso l’ordine circondariale che ha la tenuta del registro suddetto, limitatamente ai procedimenti che, in base alle norme vigenti anteriormente alla data di efficacia del decreto legislativo di attuazione della legge 16 luglio 1997, n. 254, rientravano nelle competenze del pretore. Davanti ai medesimi tribunali e negli stessi limiti, in sede penale, essi possono essere nominati difensori d’ufficio, esercitare le funzioni di pubblico ministero e proporre dichiarazione di impugnazione sia come difensori sia come rappresentanti del pubblico ministero”.

Con riferimento all’applicazione della tassa sulle concessioni governative disciplinata dal DPR del 26 ottobre 1972, n. 641, l’articolo 22 della tariffa allegata allo stesso prevede il pagamento del tributo citato per l’“Esercizio di attività industriali o commerciali e di professioni, arti o mestieri …” nella misura di euro 168,00.

Ciò posto, dalla normativa sopra individuata emerge che durante il primo anno di iscrizione del soggetto, questi non è ammesso all’esercizio della professione forense che invece può essere svolta dai “… praticanti procuratori, dopo un anno dalla iscrizione nel registro…”, i quali possono “… essere nominati difensori d’ufficio, esercitare le funzioni di pubblico ministero e proporre dichiarazione di impugnazione sia come difensori sia come rappresentanti del pubblico ministero”.

Occorre determinare se all’attività svolta dal praticante procuratore possa essere attribuita la qualificazione di “professione”, sì da ritenere integrato il presupposto per l’applicazione della tassa sulle concessioni governative. La questione non risulta definita né in un senso né nell’altro dalla pronuncia della Consulta (ordinanza n. 163 del 2002) richiamata dall’Ordine istante.

Giova, peraltro, tener presente che ai sensi dell’articolo 2229 del codice civile – “esercizio delle professioni intellettuali”- “La legge determina le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria la iscrizione in appositi albi o elenchi…”, e che ai sensi dell’articolo 2231 c.c. “Quando l’esercizio di un’attività professionale è condizionato alla iscrizione in un albo o elenco, la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il pagamento della retribuzione…”. L’azione per il pagamento della retribuzione invece è prevista, ai sensi dell’articolo 8 del DM 8 aprile 2004, n. 127, per i praticanti avvocati autorizzati al patrocinio ai quali “… deve essere liquidata la metà degli onorari e dei diritti spettanti all’avvocato”.

Inoltre, giova rammentare che per l’esercizio del patrocinio e delle funzioni stabilite a norma di legge -seppure con le limitazioni evidenziate nel secondo comma dell’articolo 8 del R.D.L n. 1578 del 1933- solo dopo il secondo anno di iscrizione sussiste la condizione di “… aver prestato giuramento davanti al presidente del tribunale del circondario in cui il praticante procuratore è iscritto secondo la formula seguente: ‘Consapevole dell’alta dignità della professione forense , giuro di adempiere ai doveri ad essa inerenti e ai compiti che la legge mi affida con lealtà, onore e diligenza per i fini della giustizia’ ”.

Attesa anche la formula enunciata dal giuramento, che espressamente richiama l’esercizio di una professione, in questo caso forense, si esprime l’avviso che nel caso di iscrizione nell’albo in esame per gli anni successivi al primo, sussista esercizio di una professione con conseguente riconducibilità alle previsioni del citato articolo 22, punto 8, della tariffa allegata al DPR n. 641 del 1972. Pertanto, torna applicabile la tassa sulle concessioni governative nei modi e nelle misure evidenziate da tale norma.

Da quanto sopra discende che solo nel caso in cui l’iscrizione all’albo non abiliti all’esercizio di alcuna professione, come nell’ipotesi di iscrizione al primo anno nel registro speciale dei praticanti, di cui al comma 1 dell’articolo 8 del più volte richiamato RDL n. 1578 del 1933, la tassa sulle concessioni governative non risulta dovuta per carenza dei presupposti di applicazione della stessa.

***

Le Direzioni regionali e provinciali vigileranno affinché le istruzioni fornite e i principi enunciati con la presente risoluzione vengano puntualmente osservati dagli uffici.

12 ottobre 2010 Posted by | Senza categoria | Lascia un commento

Il tempo necessario per indossare gli abiti da lavoro va retribuito

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Corte Suprema di Cassazione

IV Sezione Lavoro

Sentenza n. 19358 del 10.09.2010

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Un gruppo di dipendenti della Unilever Italia s.r.l., con separati ricorsi poi riuniti, convenivano in giudizio la predetta società per chiedere la corresponsione dell’equivalente di venti minuti di retribuzione giornaliera per 45 settimane, a fronte del c.d. “tempo tuta”. Esponevano che per entrare nel perimetro aziendale dovevano transitare per un tornello apribile mediante tesserino magnetico di riconoscimento, indi percorrere cento metri ed accedere allo spogliatoio, ivi indossare gli indumenti di lavoro forniti dall’azienda, effettuare una seconda timbratura del tesserino prima dell’inizio del lavoro; al termine, dovevano effettuare una terza timbratura, accedere allo spogliatoio per lasciare gli abiti di servizio, passare una quarta volta il tesserino al tornello ed uscire. Deducevano che il tempo occorrente per le suddette operazioni costituiva una “messa a disposizione” delle proprie energie in favore del datore di lavoro, onde il tempo stesso doveva essere retribuito.

2. Si costituiva la società ed eccepiva che nel corso delle operazioni suddette i lavoratori rimanevano comunque liberi di disporre del proprio tempo e non erano sottoposti al potere datoriale, mentre soltanto con l’inizio effettivo del turno di lavoro essi erano sottoposti agli ordini ed alle indicazioni dei superiori gerarchici.

3. Il Tribunale respingeva la domanda attrice, ritenendo che il tempo necessario per la vestizione non costituisse tempo di lavoro retribuito. Proponevano appello gli attori. Si costituiva e si opponeva la Unilever, la quale dava atto della conciliazione intervenuta nei confronti di Protani Pasqualino. La Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, accoglieva le domande attrici nella misura – equitativamente determinata – del 50%.

Questa in sintesi la motivazione della sentenza di appello:

– come risulta dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 15734/2003, va considerato tempo di lavoro anche quello in cui il lavoratore si tiene a disposizione del datore di lavoro;

– quando l’obbligo di vestizione della divisa (Cass. n. 3763/1998) deve essere eseguito secondo pregnanti disposizioni del datore di lavoro circa il tempo ed il luogo dell’esecuzione, tale attività risulta “eterodiretta” e quindi dà diritto alla retribuzione;

– applicati tali principi, ne risulta che il tempo impiegato nella vestizione va considerato orario di lavoro;

– ciò risulta confermato dalla direttiva n. 104/1993 della Comunità Europea, recepita nell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 66.2003 (utilizzata come indicazione interpretativa);

– poiché non è possibile individuare per ciascun attore i tempi effettivamente impiegati per indossare e dismettere gli abiti da lavoro, soccorre una valutazione equitativa ex art. 432 c.p.c.

4. Ha proposto ricorso per Cassazione la Unilever Italia s.r.l., deducendo cinque motivi. Gli attori sono rimasti intimati.

MOTIVI DELLA DECISIONE

5. Con il primo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., degli artt. 1 e 3 del r.d. n. 692.1923, del r.d. n. 1955.1923, 1 comma 1 del d.lgs. n. 66/2003, del d.P.R. n. 327/1980, del d.lgs. n. 155/1997, 12 delle Preleggi, 2094, 2104 c.c., 112 e segg. c.p.c., 2997 c.c.: la Corte di Appello ha violato la normativa inerente all’orario di lavoro ed il criterio dell’onere della prova, affermando apoditticamente che durante il tempo della vestizione il lavoratore sarebbe a disposizione del datore di lavoro. Viceversa detto tempo non richiede applicazione assidua e continuativa ed è equiparabile ad un riposo intermedio ovvero al tempo necessario per recarsi al lavoro. Il lavoratore non è a disposizione del datore di lavoro e non è nell’esercizio delle sue attività. Non vi è sinallagma contrattuale, ma solo un’attività preparatoria per la resa della prestazione.

6. Con il secondo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., degli artt. 2099 c.c., 36 Cost., omessa motivazione e mancata valutazione della disciplina di cui ai c.c.n.l. di settore 1991, 1995 e 1999, degli accordi aziendali, delle regole sull’interpretazione dei contratti di cui agli artt. 1362 e segg. c.p.c. Trascritte le norme contrattuali sull’orario di lavoro, deduce la ricorrente che la riduzione di orario pari ad un’ora settimanale ha avuto riguardo al lavoro effettivo.

7. Con il terzo motivo del ricorso, la ricorrente deduce omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in fatto circa un punto decisivo della controversia, a sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., deducendo l’omesso esame degli accordi sindacali e la mancata applicazione della regola generale dell’assorbimento del trattamento di miglior favore riferibile anche alle pause contrattuali – violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., degli artt. 1362 segg. c.c. Ogni dipendente può entrare in fabbrica fino a 29 minuti prima dell’inizio del turno e quando ha indossato l’abito da lavoro è libero di impiegare il tempo come desidera. Tali circostanze sono state capitolate come prova. Segue la trascrizione delle fonti contrattuali e si deduce che l’eventuale credito orario doveva essere compensato, fino a concorrenza, con le riduzioni di orario effettivo.

8. I motivi sopra riportati possono essere esaminati congiuntamente, in quanto tra loro strettamente connessi. Essi risultano infondati. La giurisprudenza di questa Corte di Cassazione, dopo qualche incertezza, si è orientata nel senso che “Ai fini di valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito” Così Cass. n. 15734/2003.

9. Successivamente il principio è ripreso da Cass. n. 19273.2006: “Ai fini di valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito. (Nella specie, riguardante un periodo antecedente alla entrata in vigore del d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66 di recepimento delle direttive comunitarie 93/104 e 200/34, la S.C. ha confermato la sentenza di merito secondo la quale il tempo della vestizione, facendo corpo con quello concernente la obbligazione principale ed attenendo un vincolo che caratterizza inevitabilmente la fase preparatoria, doveva ritenersi già remunerato dalla retribuzione ordinaria, senza necessità di distinguere la retribuzione a seconda dell’esistenza dell’obbligo di indossare o meno gli indumenti da lavoro)”.

10. Più recentemente il principio è confermato da Cass. n. 15492/2009: “L’art. 5 del contratto collettivo nazionale per i lavoratori delle industrie meccaniche private in data 8 giugno 1999 e del contratto collettivo nazionale delle aziende meccaniche pubbliche aderenti all’Intersind, nella parte in cui prevede che sono considerate ore di lavoro quelle di effettiva prestazione, deve essere interpretato nel senso che siano da ricomprendere nelle ore di lavoro effettivo, come tali da retribuire, anche le attività preparatorie o successive allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché eterodirette dal datore di lavoro, fra le quali deve ricomprendersi anche il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale, qualora il datore di lavoro ne disciplini il tempo ed il luogo di esecuzione. Né può ritenersi incompatibile con tale interpretazione la disposizione contenuta nell’art. 5 citato secondo la quale le ore di lavoro sono contate con l’orologio dello stabilimento o reparto, posto che tale clausola non ha una funzione prescrittiva, ma ha natura meramente ordinatoria e regolativa, ed è destinata a cedere a fronte dell’eventuale ricomprensione nell’orario di lavoro di operazioni preparatorie e/o integrative della prestazione lavorativa che siano, rispettivamente, anteriori o posteriori alla timbratura dell’orologio marcatempo”.

11. La giurisprudenza sopra citata conferma che nel rapporto di lavoro deve distinguersi una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104, secondo comma, c.c.) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria. Di conseguenza al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva.

12. Con il quarto motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., degli artt. 414, 112, 115 c.p.c., 2797 c.c. e “decadenza”: la Corte di Appello ha violato il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, perché ha accolto una domanda diversa da quella proposta, vale a dire la corresponsione della retribuzione per tutto il tempo intermedio tra l’accesso al primo tornello e l’uscita definitiva dall’azienda.

13. Il quinto motivo del ricorso attiene alla violazione degli artt. 112, 414, 432 c.p.c., 1226 e 2697 c.c., vale a dire la quantificazione della domanda sulla base di un arbitrario esercizio dei poteri equitativi dinanzi ad una carente allegazione dei fatti contenuta nella domanda.

14. Detti due motivi, da esaminarsi anch’essi congiuntamente, sono infondati. Il giudice di merito non ha accolto una domanda diversa da quella formulata, ma ha attribuito un “quid minus” rispetto a quanto domandato dagli attori, finendo per considerare come tempo di lavoro o tempo a disposizione, eterodiretto, la metà del tempo mediamente impiegato per passare dal primo al secondo tornello e dal terzo al quarto. La relativa liquidazione è stata operata in via equitativa e con prudente apprezzamento, stante la difficoltà di accertare con precisione il “quantum” della domanda. Il giudice di merito ha fatto uso discrezionale dei poteri che gli attribuisce la norma processuale, con apprezzamento in fatto incensurabile in Cassazione, siccome adeguatamente motivato.

15. Non avendo la controparte svolto attività difensiva, non vi è luogo a provvedere sulle spese del grado.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso; nulla per le spese del processo di legittimità.

12 ottobre 2010 Posted by | Senza categoria | Lascia un commento

Nell’ipotesi di soccombenza soltanto di una delle parti in causa, il giudice deve motivare la compensazione totale o parziale delle spese

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Corte Suprema di cassazione

Sezione II

Ordinanza 27 settembre 2010, n. 20324

FATTO E DIRITTO

Il giudice di pace di Roma con sentenza 11 settembre 2008 ha accolto l’opposizione proposta il 14 settembre 2007 da Irene P. per impugnare la cartella esattoriale n. 097 2003 1053291214 000, notificatale da Equitalia Gerit s.p.a.; ha compensato le spese di lite.
L’opponente ha proposto ricorso per cassazione, notificato l’11 settembre 2009; Equitalia ha resistito con controricorso; il comune di Roma è rimasto intimato.

Il giudice relatore ha avviato la causa a decisione con il rito previsto per il procedimento in Camera di consiglio, ravvisando la manifesta fondatezza del ricorso.

Nella sentenza impugnata il giudicante ha qualificato il ricorso quale opposizione a un atto del procedimento di esecuzione e quindi ex art. 615 c.p.c. Ha infatti rilevato che l’opposizione aveva per oggetto il preavviso di fermo veicoli riferito alla cartella menzionata e ha evidenziato che il fermo auto “è misura cautelare e va collocato nell’ambito del procedimento di esecuzione promosso dal concessionario”. Ha inoltre ritenuto che l’opposizione era fondata, poiché nella cartella era stata omessa la indicazione del nome del responsabile del procedimento, con conseguente nullità del provvedimento impugnato.

Orbene, insegna la giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. 30201/2008; 11455/2007) che l’impugnazione di un provvedimento giurisdizionale deve essere proposta nelle forme previste dalla legge per la domanda così come è stata qualificata dal giudice (anche se tale qualificazione sia erronea). Ne consegue che, ove il giudice di merito qualifichi il ricorso propostogli come opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., il regime dei rimedi va individuato con riferimento a tale qualificazione.

Come ha esattamente osservato la relazione redatta ex art. 380-bis c.p.c., trattandosi nella specie di impugnazione avverso un provvedimento reso tra il 1° marzo 2006 e il 4 luglio 2009 la decisione non era impugnabile con l’appello, ma con il ricorso per cassazione, correttamente proposto con atto notificato l’11 settembre 2009. Si applicava infatti il regime previsto dall’art. 616 c.p.c., nel testo vigente a seguito della modifica intervenuta con la l. 24 febbraio 2006, n. 52, art. 14, comma 1, in forza del quale (ultimo inciso) la causa era decisa con sentenza non impugnabile, restando così esperibile solo il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, (cfr. Cass. 2043/2010).

La novella di cui alla l. 69 del 2009, entrata in vigore il 4 luglio 2009, ha soppresso tale ultimo inciso. Quanto al regime transitorio, l’art. 58, comma 2, ha stabilito che ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore della legge suddetta si applica l’art. 616 c.p.c., come modificato dalla legge stessa, e dunque il ripristinato regime del doppio grado di impugnazione.

Il caso in esame riguarda una controversia non più pendente in primo grado alla data del 4 luglio 2009, essendo stato deciso con sentenza del settembre 2008. Pendeva tuttavia il termine per l’impugnazione. È da ritenere, in accordo con la dottrina, che in tale ipotesi permanga la previsione dell’immediata ricorribilità per cassazione. Militano in tal senso più argomenti: in primo luogo, quello letterale, dovendosi escludere che il giudizio già deciso possa essere assimilato a un giudizio ancora pendente in primo grado. In secondo luogo, la illogicità di un duplice mutevole regime di impugnazione nei confronti dello stesso provvedimento, come si dovrebbe ipotizzare ove si ammettesse che, a partire dal 4 luglio 2009, un provvedimento già reso, prima ricorribile, fosse stato assoggettato ad appello.

In terzo luogo, va rilevato che si avrebbe una indebita applicazione retroattiva della legge processuale ove si pretendesse di applicare la legge sopravvenuta in relazione ad atti, le sentenze, che in base alla legge del tempo in cui erano stati posti in essere implicavano un diverso regime di impugnazione. Il principio tempus regit actum sembra essere più correttamente applicato, come si è sostenuto in dottrina, allorquando il regime impugnatorio venga ancorato alla normativa vigente al momento in cui la sentenza da impugnare sia venuta ad esistenza. (Cfr. utilmente Cass. 20414/2006; 5342/2009; 9940/2009).

Pertanto, in relazione alle sentenze che hanno deciso opposizioni all’esecuzione pubblicate tra il 1° marzo 2006 e il 4 luglio 2009, il regime impugnatorio applicabile resta quello della non impugnabilità; solo quelle pubblicate successivamente al 4 luglio sono soggette alla nuova regola della appellabilità, ai sensi del nuovo testo dell’art. 616 c.p.c.

L’unico motivo di ricorso, corredato da quesito ex art. 366-bis c.p.c., lamenta la illiceità della mancata liquidazione delle spese in favore della parte vincitrice “in assenza di reciproca soccombenza e di motivazione sulla concorrenza di giusti motivi”.

Il motivo è manifestamente fondato. L’art. 92 c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis, prevedeva infatti la possibilità di compensare le spese di lite solo in caso di reciproca soccombenza o di giusti motivi “esplicitamente indicati nella motivazione”.

Nel caso de quo non vi è stata reciproca soccombenza, essendo stata integralmente accolta l’opposizione e annullato l’atto amministrativo opposto. La sentenza impugnata non esplicita i giusti motivi per la compensazione, essendosi apoditticamente limitata ad esporre che essi “sussistono”.

Discende da quanto esposto l’accoglimento del ricorso. La sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata, per nuovo esame in ordine alle spese, al giudice di pace di Roma. Questi si atterrà al seguente principio di diritto: Con riferimento ai giudizi disciplinati dall’art. 92 c.p.c., comma 2, così sostituito dalla l. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, come modificato dal d.l. n. 273/2005, art. 39-quater, convertito con modificazioni nella l. n. 51 del 2006, la compensazione delle spese può essere disposta, parzialmente o per intero, qualora non sussista reciproca soccombenza, solo previa esplicita indicazione dei giusti motivi ravvisati dal giudice di merito. Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese di questo giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altro giudice di pace di Roma.


12 ottobre 2010 Posted by | Senza categoria | Lascia un commento

Tribunale di Torino 11.10.2010: irretroattività del principio enunciato da Cass. S.U. 19246/2010 (opposizione a decreto ingiuntivo)

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FONTE: ordineavvocati.catanzaro.it (segnalazione dell’Avv. Fabrizio Sigillò)

Tribunale di Torino – Ordinanza del 11-10-2010 (est. dott. Liberati)

Opposizione a decreto ingiuntivo – Costituzione dell’opponente – Dimezzamento automatico dei termini – Sezioni Unite 19246/2010 – Mutamento giurisprudenziale “innovativo” –  Cd. Overruling – Tutela della parte incorsa in errore incolpevole – Applicazione dell’art. 153 c.p.c. – Remissione in termini

Alla luce del principio costituzionale del giusto processo (art. 111 Cost.), l’errore della parte che abbia fatto affidamento su una consolidata (al tempo della proposizione della opposizione e della costituzione in giudizio) giurisprudenza di legittimità sulle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, non può avere rilevanza preclusiva, sussistendo i presupposti per la rimessione in termini (art. 153 c.p.c. nel testo in vigore dal 4.7.2009), alla cui applicazione non osta la mancanza dell’istanza di parte, essendo conosciuta, per le ragioni evidenziate, la causa non imputabile (così, Cass., sez. II, ordinanze interlocutorie nn. 14627/2010, 15811/2010 depositate il 17.6.2010 ed il il 2.7.2010). Pertanto, la tardiva costituzione dell’opponente e la decadenza che ne è derivata sono riconducibili ad un causa non imputabile all’opponente stesso, con la conseguente sussistenza dei presupposti per rimettere in termini l’opponente, di guisa che la sua costituzione, effettuata oltre il suddetto termine dimidiato ma entro quello ordinario di dieci giorni, deve essere ritenuta tempestiva, e che quindi non occorre assegnare un ulteriore termine per provvedervi, trattandosi di attività già compiuta (nel caso di specie viene esclusa la retroattività del principio di diritto enunciato da Cass. civ. SS.UU. 9 settembre 2010 n. 19246 in materia di costituzione dell’opponente nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ricorrendo allo strumento della remissione in termini).

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